Lettera aperta del parroco della comunità di Santa Maria Vetere Andria

Dialogo Numero Unico  Giugno 1990

Pace a voi!

Dopo un anno di incontri e scontri, di allontanamenti e di avvicinamenti, di gioie e sofferenze nella conduzione della Comunità, non è mio intento presentare un consuntivo o un progetto ideale di Comunità.
Mi limiterò a tentare un dialogo tra il nostro quotidiano e la nostra vocazione cristiana ed ecclesiale o comunitaria.
Il nostro è un tentativo di dialogo in cui il senso critico, la carica profetica, la fede e l’amore per una vita qualitativamente migliore e cristianamente qualificata entrano in gioco per seppellire il vecchio (tutto ciò che deve morire) e, ci auguriamo, fare nascere il nuovo (tutto ciò che deve risorgere).
Quest’ anno punteremo i riflettori su questi due punti:

  1. Modi errati di concepire e vivere il proprio essere cristiano (o chiesa)
  2. La riappropriazione, da parte del laicato (i battezzati), del proprio essere cristiano (chiesa) nelle realtà umane e terrestri.

1. Modi Errati Di Concepire E Vivere Il Proprio Essere Cristiano (O Chiesa)

Partiamo da una definizione dell’uomo e del cristiano: “L’uomo è apertura a Dio ed essere in relazione”; “il cristiano è colui che sconfina in Dio ed esprime Dio nell’umano e nelle relazioni umane”
Ammettendo per fede la Creazione e l’Incarnazione, ne consegue che l’uomo (o la donna) sono espressioni umana di Dio.
Tutti i problemi nascono da un’arbitraria dissociazione dei due componenti il connubio Uomo-Dio. Quando i due componenti non interagiscono in contemporaneo e si privilegia o radicalizza uno a scapito dell’altro o l’uno esclude l’altro, vanifichiamo l’Incarnazione e non facciamo crescere l’uomo nuovo fatto ad immagine e somiglianza di Dio e, perciò, fratello universale di ogni creatura.

Primo modo errato di concepire e vivere il proprio essere cristiano: continuare a creare una differenziazione e dissociazione arbitraria nell’essere, oltre che nella funzione, tra sacerdozio comune dei fedeli e sacerdozio ministeriale.

Nella nostra Comunità la visione dominante che si ha della vita cristiana e della Chiesa è questa: dedicarsi a Dio è proprio dei preti, frati, suore e consacrati o, al massimo, delle “bizzoche”: essi devono pregare, meditare, andare in Chiesa, evangelizzarsi ed evangelizzare, dedicarsi agli altri nel Volontariato ; dedicarsi al lavoro, alla casa, ai figli ecc. è proprio dei laici, cioè degli sposati o ten­denti a sposarsi o a vivere nel mondo.

OSSERVAZIONI:

In questa visione del proprio essere cri­stiano sfugge quanto segue:

  • L’Incarnazione è universale: Dio non ha as­sunto in sè solo la natura umana dei preti, frati e suore; ha assunto in sè anche la na­tura umana dei laici;
  • Urge ricomporre l’intima unione tra umano e divino nella comunione che si realizza nella preghiera, nei sacramenti, nell’ascol­to del Signore.
  • Urge riappropriarsi della propria realtà pro­fetica, facendo della natura umana, cioè delle proprie parole, sentimenti, pensieri, comportamenti un sacramento, un’espres­sione vivente dell’essere in Dio: “Chi ascol­ta voi —come dice Gesù— ascolta me”; “chi ascolta me, ascolta il Padre mio”.
  • Unico è il battesimo, unico è lo Spirito: uni­ca deve essere la vita di unione con Dio e di amore verso i fratelli nei preti e nei laici.

Secondo modo errato di concepire e vivere il proprio essere Cristiano: Continuare a separare arbitraria­mente l’umano e il Divino, la Terra e il Cielo, Il Naturale e il Soprannatu­rale

Nella nostra Comunità si confina preti, frati e suore nel soprannaturale; il laico nell’umano, nel terreno.

  • Con questa logica il chierichetto, dopo la 1° media, appena prende coscienza di questo stato di cose e non si sente chiamato alla vita religiosa e sacerdotale, non serve più all’altare.
  • Al laico, in genere, sembra interdetto l’ac­cesso al servizio all’altare e ai ministeri ec­clesiali (lettori, accoliti ecc.) vari.
  • Quando ci si lega fortemente agli amici, al lavoro, allo sport, alla fidanzata/o, alla fami­glia ecc. si trascura o non si sente più l’esi­genza del Signore, della Comunità: “Il Si­gnore —sembra che si pensi o si dica— e il mondo sono due cose distinte: o si fa l’una o si fa l’altra, o si sceglie l’uno o si sceglie l’altro.

OSSERVAZIONI:

Relegare il soprannaturale ad altre epo­che storiche come il Medioevo e l’umano, il naturale alla nostra civiltà: sono divisioni arbi­trarie.

  • La verità è che, in seguito all’incarnazione, cioè l’assunzione della natura umana da parte di Dio, questa deve essere congiunta a Dio come i tralci alla vite.
  • La verità è che l’uomo deve trasformare, esprimere il divino nell’umano. In parole povere, l’amore umano, ad esempio, deve avere i lineamenti, lo spessore dell’amore divino.
  • Le amicizie, le coppie, molto spesso, si sfaldano perché non hanno il supporto e la linfa divina che tutto unisce, fonde e rende comunione e pace.
  • È sbagliato al cento per cento, quando per vivere intensamente l’umano, si tralascia il divino o, peggio, si presume di poter vivere l’umano escludendo il divino.
  • In un solo caso è lecito, anzi necessario di­staccare l’umano dal divino; quando si fa il male: “Chi fa il male —dice S. Giovanni—odia la luce”; “non si avvicina alla luce (al Signore) per timore che siano manifeste le sue opere”. n tutti gli altri casi non è mai lecito trala­sciare il divino in nome dell’uomo o vice­versa.
  • L’andare in Chiesa, incontrarsi con il Si­gnore non è fermarsi sul Tabor: è prope­deutica a vivere e vivere bene l’umano nel­la fratellanza e nella pace.

Terzo Modo Errato Di Concepire E Vi­vere Il Proprio Essere Cristiano: Scindere La Fede (La Pietà) Personale E Comunitaria

Ritenere che sia sufficiente, per vivere la propria fede, un rapporto diretto con Dio solo a livello personale, è errato.

È necessario vivere la fede a livello per­sonale e comunitario.

Vivendo la fede solo in un rapporto per­sonale con Dio, come tanti dicono di fare, si­gnifica:
a)    non essere sostenuti e arricchiti dalla fede dei fratelli;
b)   cadere nel soggettivismo: anche l’odio può essere rafforzato dal rapporto solc personale con Dio.

La causa o, per lo meno, una delle cause per cui:

  • andare o non andare in Chiesa sia la stes­sa cosa;
  • frequentare o non frequentare la catechesi la stessa cosa;
  • appartenere o non appartenere ad un gruppo ecclesiale sia la stessa cosa
  • parlare, esprimersi con una mentalità di fe­de o con la propria testa sia la stessa cosa;
  • amare Dio con o senza la Chiesa sia la stessa cosa; sembra da ricercarsi in questa arbitraria dissociazione tra fede personale e comuni­taria.
  • Quando verso la Parola di Dio, mediata dal­la Chiesa, si assume non un atteggiamento di conversione ma un’opinione personale;
  • quando specialmente in una riunione d uomini, parlando di aborto, pena di morte perdono ecc. si attacca la Chiesa come s farebbe con una parola umana, ciò sembra da attribuirsi al fatto che si ritiene sufficien­te vivere solo una fede personale.
  • La mentalità che sia sufficiente la fede per­sonale (soggettiva), porta quei pochi che accettano un incarico o una responsabilità nella Comunità, a desistere di fronte ac eventuali scontri o difficoltà. Non si ritiene necessario fare sacrifici per la comunità: tanto posso vivere o l’altro può vivere la propria fede anche al solo li­vello personale.
  • A volte sembra quasi una menomazione andare in Chiesa: quasi è un non sentirs uomo (adesso anche donna) quando s coltiva il rapporto specialmente comunita­rio con Dio. Sembra quasi che si tradisca l’umano non si abbia sufficiente coraggio o piacere nel restare semplicemente nell’umano.

CONCLUSIONI:

  1. Si rischia di sciupare o distruggere il pa­trimonio e la fede cristiana se, per igno­ranza e per non sperimentazione, si con­tinua a dissociare l’umano e il divino, la terra e il cielo, il personale e il comunita­rio.
  2. L’Umano e il divino, non solo sono fatti per integrarsi e si richiedono vicendevol­mente, ma sono fatti per essere insieme per vivere bene le vicende umane e i rap­porti umani.
  3. Continueremo ad assistere sia all’estra­neazione e all’emarginazione del laicato dalla vita ecclesiale e sia all’estraneazio­ne e all’emarginazione del divino dall’umano, se la concezione della vita cristiana e della Chiesa non saranno sot­toposti ad una revisione seria e corretta, in cui si recuperi il divino nell’umano.

2. La Riappropriazione, Da Parte Del Laicato (Battezzati)del Proprio Essere Cristiano (O Chiesa) Nelle Realtà umane e Terrestri

Ciò che non si riesce o non si vuole com­prendere nella nostra Comunità è questo: ge­stire le realtà umane: la vita, l’essere sposi, l’essere padre e madre, l’amore (l’amicizia), il lavoro, la scuola ecc. con o senza Dio nel pro­prio cuore o spirito umano non è la stessa co­sa.

LA VITA UMANA VISSUTA IN DIO E CON DIO

È un cammino dalla notte al giorno, dalla morte alla vita: è un morire nascendo: è il chicco di grano che nasce morendo; è il chic­co di sale che muore per nascere come ac­qua salata ecc.

La vita, che è bella, buona, mentre si estingue, viene pianta, viene sofferta, come la perdita degli amici. Però il pianto viene con­fortato da una nuova Vita (Dio) che ci assorbe e ci libera dalla morte.

Il cristiano tende a godersi, gustarsi il so­le, la montagna, il mare, l’acqua, l’amico, la sposa ecc.: tutto è buono. Però sente sempre la nostalgia del totalmente Altro; si sente sempre “pellegrino e ospite” sulla terra, tende sempre altrove: alla pienezza, alla sua vera terra.

Il cristiano ama la terra, si incarna nella terra, si nutre e nutre d’amore e vita; dona vita come espressione di sè, è impegnato a con­servare e fare crescere la vita, i sentimenti ecc., gusta, gode la terra e i frutti della terra.

Però non si totalizza nella terra, nell’uma­no: queste restano sempre realtà penultime, non ultime; realtà relative non assolute: il cri­stiano, anche se ne piange la perdita, non di­spera di esse: il suo sguardo, il suo cuore è anche altrove: in Dio e con Dio.

CHI VIVE SENZA DIO CERCA DI FERMARE LA VITA NEL PRESENTE O IN UN FUTURO TERRENO: LA VITA È CHIUSA E CIRCO­SCRITTA ALLA TERRA.

Di qui l’affanno disperato per riempire i granai; assicurazioni varie per la vita; la fami­glia, i figli, gli amici solo per conservare la propria vita con tutti gli isterismi e le dispera­zioni varie quando i conti non tornano; la ten­sione e l’apprensione continua per conserva­re la vita; le paure, anche piccole, che diven­tano terrore, angoscie; le precauzioni che di­ventano immobilismo; la sfiducia verso tutti che generalizza il nemico ecc.; la fuga da sè per non ascoltare le voci vere del proprio es­sere che sono di creaturalità, di povertà e re­latività; la fuga nel rumore, nel fare, nel lusso, nella droga ecc. “E chi più ne ha, più ne met­ta”.

L’ESSERE PADRE O MADRE CON DIO E IN DIO

“Ogni paternità e maternità viene da Dio”.

  • Ogni paternità e maternità vissuta nel Signore, in sintonia e sinergia con il Signore, non è circoscritta alle mura domestiche e al frutto della propria carne e umanità; si allarga e si estende in nuovi spazi e conte­sti sociali, specialmente nella comunità di fede, di lavoro, di amicizia e di bisogno ecc. in conformità alla paternità di Dio che si estende ad ogni creatura.
  • In altri termini: non si fanno confluire i pro­pri beni, il proprio tempo, sentimenti, amo­re, cioè la propria maternità e paternità so­lo ed esclusivamente nei figli.
  • Nei rapporti umani ed educativi con la pro­le non si tende alla riproduzione umana di sè nei figli, cioè nel volerli a propria imma­gine e somiglianza: li si vuole ad immagi­ne e somiglianza di Dio e, perciò, aperti all’amore universale, alla bontà, alla fede_ ecc.
  • Non si circoscrive la stima e l’apprezza­mento dei figli alle loro capacità operative, _ intellettive ecc., cioè alle loro capacità umane e produttive ma alle loro capacità di essere e comunicare con Dio, alle loro ca­pacità di essere e vivere da fratelli di tutte le creature, alle loro capacità di sapere es­sere in armonia e in pace con tutti; alle loro capacità di sapersi donare perché la vita è dono e si esprime nella sua realtà più vera quando si fa dono e gratuità.

L’ESSERE SPOSO/A VISSUTO/A NEL SI­GNORE

Essere sposo/a nel Signore significa:

  • non ridurre la propria sponsalità nel rap­porto di coppia umana, ma restare aperti al rapporto sponsale con il Signore che è eterno e ad altri ambiti sociali e comunitari. Questo comporta:
  • non chiudere la capacità dell’amore spon­sale all’interno della coppia;
  • non assolutizzare il rapporto di coppia, rendendosi incapace di vivere in mancanza di esso, come avviene in tante vedove e nubili;
  • non pretendere la pienezza della vita dal partner;
  • non perdere il gusto della vita, in assenza del partner; Vivere il rapporto sponsale nel Signore significa: guardare e trattare con più indul­genza i Propri difetti e quelli del partner; dare un volto immolativo e redentivo, come quello del Signore, al proprio amore verso il partner; smetterla di essere in un eterno vittimismo per ciò che il partner è o dovrebbe essere; educarsi ogni giorno ad un amore gratuito e senza ritorno come è quello del Signore.

L’AMORE E L’AMICIZIA VISSUTI NEL SIGNO­RE

Significano compartecipazione all’amore e all’amicizia del Signore che sono universali.
I lineamenti di questo amore emergono dalla parabola del Buon Samaritano: l’amore non è circoscritto al clan familiare o di fede c di cultura o di Nazione: il Samaritano era un estraneo, di fede diversa, di cultura e di Na­zione diversa.
Chi mette in moto la carità del Samaritano sono: la povertà, le lacerazioni, le meno­mazioni, le emarginazioni varie del malcapitato nell’agguato dei ladroni.

Se ci chiediamo: Perchè da noi il Volontariato è un tabù?
Perché la carità (l’amicizia) non va al di là dei figli, la famiglia, i parenti, gli amici del pro­
prio gruppo?
Perché l’amore non si estende a chi non 
ci dà il contraccambio?
Perché l’amore non si estende anche a 
genitori anziani che hanno bisogno di cure, assistenza continua?
Perché non esiste l’amore gratuito? Per­chè ogni prestazione o favore deve avere la sua ricompensa?
Perché si invita al Matrimonio per il re­galo? Perchè si sceglie per padrino o madrina 
la persona che può corrispondere economicamente?

La risposta è una sola: l’amore umano non è sintonizzato, potenziato dall’amore divi­no che è creativo, gratuito, amante della vita ecc.

Non ci sono altre risposte: l’amore uma­no non è sacramento, espressione dell’amore divino, come avveniva in Gesù uomo.

IL LAVORO VISSUTO NEL SIGNORE
Appare evidente che il lavoro, nella no­stra Comunità, viene vissuto come fonte di guadagno, di accumulo di ricchezza: è fun­zionale alla propria vita e alla propria casa. Anche il lavoro domestico della casalinga vie­ne ammesso e accettato come fonte di ric­chezza e di benessere per la casa, i figli, il marito.

Manca la dimensione del lavoro come compartecipazione all’opera creativa di Dio e, quindi, il lavoro anche come ricerca del bello, dell’opera d’arte ecc.; i mattoni non sempre vengono messi uno, sull’altro con un’estetica o finalità architettoniche belle, specialmente nell’abusivismo. Nelle case ab­bonda il lusso, difficilmente l’estetica, anche quando non si bada a risparmi.

Coltivare la pittura, la musica, l’arte in ge­nere sembra un tempo sprecato.

Manca la dimensione del lavoro come compartecipazione all’opera gratuita di Dio.

Oltre il lavoro retribuito sembra che non esista un lavoro gratuito.

Per il lavoro retribuito non ci sono limiti di produzione e di tempo; per il lavoro gratuito non c’è mai né tempo, né produzione.

Un fabbro, un falegname, un muratore, un professore (o studente), per un lavoro retri­buito lavora con l’orologio senza lancette, per un lavoro gratuito non arriva mai un orario o un momento previsto.

Ricordo che alcuni giovani lavoratori e studenti, per fare un po’ di volontariato con la Cooperativa che retribuiva, avevano il tempo; per farlo gratuitamente non c’era mai tempo.

Eppure Dio ci offre tutto gratuitamente: i mezzi di produzione (terra, cielo ecc.) e I frutti della terra…

Solo se il lavoro verrà vissuto nel Signo­re, potremo appropriarci e coltivare il bello, la gratuità nel lavoro.

Manca la dimensione del lavoro come strumento di fratellanza.

Mi spiego: nel lavoro manca l’attenzione alla situazione dell’altro; si guarda esclusiva­mente al costo del lavoro, ad una giustizia che tiene conto del proprio vantaggio, del proprio profitto, ingenerando sospetti di diso­nestà, mancanza di fiducia ecc.

Questo è dovuto al fatto che si lavora es­clusivamente per la terra, la vita terrena; non si tengono presenti i tempi ultimi, l’anticipa­zione di essi vivendo nel Signore e nella fra­tellanza.

LA SCUOLA VISSUTA NEL SIGNORE

La Scuola, da parte degli insegnanti, de­gli inservienti e degli utenti viene intesa come esplicitazione o acquisizione di una profes­sione, non come una missione educativa.

La missione educativa tiene presente la crescita umana e globale dell’essere umano, non tanto l’espletamento del proprio dovere secondo i canoni della società umana, dei programmi ecc.

I criteri, i punti di riferimento dell’insegna­mento diventano al massimo il profitto scola­stico e la condotta scolastica, non la forma­zione dei sentimenti, dei valori ecc.

Ciò che preoccupa l’insegnante non è il figlio di Dio che deve crescere anche intellet­tivamente e scolasticamente.

Non ho ancora visto un insegnamento che veicoli attraverso l’apprendimento e la sperimentazione, la socializzazione, la frater­nità, la bontà, la pace, la “pietas”.

Anche nelle Scuole cosiddette cattoliche tutto si riduce a “psicomotricità, sviluppo degli organi (occhio, udito ecc.) linguaggio, svi­luppo intellettivo, logico-matematico, sviluppo psichico con relativa didattica e pedagogia. Tutte cose buone.

Ma dove sta il “propium”, lo specifico cri­stiano con l’educazione personalizzata e non massificata, comunionale e non collettiva?

Dove sta la didattica, la pedagogia in fun­zione della pace, della conoscenza dell’ac­qua, del sole, del papà, la mamma, non nella loro funzionalità, ma nel loro essere “fratelli” e “sorelle”?

Potremmo dire di stare in un’era post-cri­stiana.

Nella nostra Scuola, in piccolo, qualcosa per cristianizzare la Scuola si è riuscito a fare almeno come tendenza: la gestione della Scuola comunitariamente valorizzando le sin­gole componenti e persone della Scuola; una gestione e applicazione dell’insegnamento comunitaria, non individualistica, un clima di rispetto e di pace nelle singole sezioni, una collaborazione e apertura sincera tra il corpo docente ecc…

Stenta a decollare l’ interiorizzazione del­la propria presenza nella Scuola come mis­sione ricevuta da Dio. espressione dell’amore di Dio attraverso l’opera delle maestre, inse­gnanti ecc. pur di svolgere questa missione, essere disposti a sacrificare tempo, energie, soldi ecc.

Non si è compreso che non si può essere espressioni dei valori cristiani, della comunità cristiana senza vivere pienamente la vita della Comunità cristiana in qualche gruppo ecclesiale o formando un gruppo ecclesiale.

Per es. : come si fa a far vivere ai bambini di Scuola Materna il mese di maggio, senza partecipare con la comunità almeno agli incontri di spiritualità mariana?

Come si può educare i bambini al senso della Comunità senza fare esperienza di Co­munità? Come si può insegnare ai bambini la fraternità senza sperimentare la fraternità nella Comunità?

Si potrebbe continuare all’infinito. Pur­i troppo a mali estremi, rimedi estremi, almeno nella nostra Scuola, se non si prende seria­mente coscienza che la Scuola va vissuta nel Signore; deve essere espressione dell’amore _ di Dio attraverso l’opera delle maestre, insegnanti ecc.

 Andria lì 13 Giugno 1990

Festa “San Antonio da Padova”

P. Vincenzo De Filippis

Lettera aperta del parroco della comunità di Santa Maria Vetere Andria

Dialogo Numero Unico  Giugno 1990

Pace a voi!

Dopo un anno di incontri e scontri, di allontanamenti e di avvicinamenti, di gioie e sofferenze nella conduzione della Comunità, non è mio intento presentare un consuntivo o un progetto ideale di Comunità.
Mi limiterò a tentare un dialogo tra il nostro quotidiano e la nostra vocazione cristiana ed ecclesiale o comunitaria.
Il nostro è un tentativo di dialogo in cui il senso critico, la carica profetica, la fede e l’amore per una vita qualitativamente migliore e cristianamente qualificata entrano in gioco per seppellire il vecchio (tutto ciò che deve morire) e, ci auguriamo, fare nascere il nuovo (tutto ciò che deve risorgere).
Quest’ anno punteremo i riflettori su questi due punti:

  1. Modi errati di concepire e vivere il proprio essere cristiano (o chiesa)
  2. La riappropriazione, da parte del laicato (i battezzati), del proprio essere cristiano (chiesa) nelle realtà umane e terrestri.

1. Modi Errati Di Concepire E Vivere Il Proprio Essere Cristiano (O Chiesa)

Partiamo da una definizione dell’uomo e del cristiano: “L’uomo è apertura a Dio ed essere in relazione”; “il cristiano è colui che sconfina in Dio ed esprime Dio nell’umano e nelle relazioni umane”
Ammettendo per fede la Creazione e l’Incarnazione, ne consegue che l’uomo (o la donna) sono espressioni umana di Dio.
Tutti i problemi nascono da un’arbitraria dissociazione dei due componenti il connubio Uomo-Dio. Quando i due componenti non interagiscono in contemporaneo e si privilegia o radicalizza uno a scapito dell’altro o l’uno esclude l’altro, vanifichiamo l’Incarnazione e non facciamo crescere l’uomo nuovo fatto ad immagine e somiglianza di Dio e, perciò, fratello universale di ogni creatura.

Primo modo errato di concepire e vivere il proprio essere cristiano: continuare a creare una differenziazione e dissociazione arbitraria nell’essere, oltre che nella funzione, tra sacerdozio comune dei fedeli e sacerdozio ministeriale.

Nella nostra Comunità la visione dominante che si ha della vita cristiana e della Chiesa è questa: dedicarsi a Dio è proprio dei preti, frati, suore e consacrati o, al massimo, delle “bizzoche”: essi devono pregare, meditare, andare in Chiesa, evangelizzarsi ed evangelizzare, dedicarsi agli altri nel Volontariato ; dedicarsi al lavoro, alla casa, ai figli ecc. è proprio dei laici, cioè degli sposati o ten­denti a sposarsi o a vivere nel mondo.

OSSERVAZIONI:

In questa visione del proprio essere cri­stiano sfugge quanto segue:

  • L’Incarnazione è universale: Dio non ha as­sunto in sè solo la natura umana dei preti, frati e suore; ha assunto in sè anche la na­tura umana dei laici;
  • Urge ricomporre l’intima unione tra umano e divino nella comunione che si realizza nella preghiera, nei sacramenti, nell’ascol­to del Signore.
  • Urge riappropriarsi della propria realtà pro­fetica, facendo della natura umana, cioè delle proprie parole, sentimenti, pensieri, comportamenti un sacramento, un’espres­sione vivente dell’essere in Dio: “Chi ascol­ta voi —come dice Gesù— ascolta me”; “chi ascolta me, ascolta il Padre mio”.
  • Unico è il battesimo, unico è lo Spirito: uni­ca deve essere la vita di unione con Dio e di amore verso i fratelli nei preti e nei laici.

Secondo modo errato di concepire e vivere il proprio essere Cristiano: Continuare a separare arbitraria­mente l’umano e il Divino, la Terra e il Cielo, Il Naturale e il Soprannatu­rale

Nella nostra Comunità si confina preti, frati e suore nel soprannaturale; il laico nell’umano, nel terreno.

  • Con questa logica il chierichetto, dopo la 1° media, appena prende coscienza di questo stato di cose e non si sente chiamato alla vita religiosa e sacerdotale, non serve più all’altare.
  • Al laico, in genere, sembra interdetto l’ac­cesso al servizio all’altare e ai ministeri ec­clesiali (lettori, accoliti ecc.) vari.
  • Quando ci si lega fortemente agli amici, al lavoro, allo sport, alla fidanzata/o, alla fami­glia ecc. si trascura o non si sente più l’esi­genza del Signore, della Comunità: “Il Si­gnore —sembra che si pensi o si dica— e il mondo sono due cose distinte: o si fa l’una o si fa l’altra, o si sceglie l’uno o si sceglie l’altro.

OSSERVAZIONI:

Relegare il soprannaturale ad altre epo­che storiche come il Medioevo e l’umano, il naturale alla nostra civiltà: sono divisioni arbi­trarie.

  • La verità è che, in seguito all’incarnazione, cioè l’assunzione della natura umana da parte di Dio, questa deve essere congiunta a Dio come i tralci alla vite.
  • La verità è che l’uomo deve trasformare, esprimere il divino nell’umano. In parole povere, l’amore umano, ad esempio, deve avere i lineamenti, lo spessore dell’amore divino.
  • Le amicizie, le coppie, molto spesso, si sfaldano perché non hanno il supporto e la linfa divina che tutto unisce, fonde e rende comunione e pace.
  • È sbagliato al cento per cento, quando per vivere intensamente l’umano, si tralascia il divino o, peggio, si presume di poter vivere l’umano escludendo il divino.
  • In un solo caso è lecito, anzi necessario di­staccare l’umano dal divino; quando si fa il male: “Chi fa il male —dice S. Giovanni—odia la luce”; “non si avvicina alla luce (al Signore) per timore che siano manifeste le sue opere”. n tutti gli altri casi non è mai lecito trala­sciare il divino in nome dell’uomo o vice­versa.
  • L’andare in Chiesa, incontrarsi con il Si­gnore non è fermarsi sul Tabor: è prope­deutica a vivere e vivere bene l’umano nel­la fratellanza e nella pace.

Terzo Modo Errato Di Concepire E Vi­vere Il Proprio Essere Cristiano: Scindere La Fede (La Pietà) Personale E Comunitaria

Ritenere che sia sufficiente, per vivere la propria fede, un rapporto diretto con Dio solo a livello personale, è errato.

È necessario vivere la fede a livello per­sonale e comunitario.

Vivendo la fede solo in un rapporto per­sonale con Dio, come tanti dicono di fare, si­gnifica:
a)    non essere sostenuti e arricchiti dalla fede dei fratelli;
b)   cadere nel soggettivismo: anche l’odio può essere rafforzato dal rapporto solc personale con Dio.

La causa o, per lo meno, una delle cause per cui:

  • andare o non andare in Chiesa sia la stes­sa cosa;
  • frequentare o non frequentare la catechesi la stessa cosa;
  • appartenere o non appartenere ad un gruppo ecclesiale sia la stessa cosa
  • parlare, esprimersi con una mentalità di fe­de o con la propria testa sia la stessa cosa;
  • amare Dio con o senza la Chiesa sia la stessa cosa; sembra da ricercarsi in questa arbitraria dissociazione tra fede personale e comuni­taria.
  • Quando verso la Parola di Dio, mediata dal­la Chiesa, si assume non un atteggiamento di conversione ma un’opinione personale;
  • quando specialmente in una riunione d uomini, parlando di aborto, pena di morte perdono ecc. si attacca la Chiesa come s farebbe con una parola umana, ciò sembra da attribuirsi al fatto che si ritiene sufficien­te vivere solo una fede personale.
  • La mentalità che sia sufficiente la fede per­sonale (soggettiva), porta quei pochi che accettano un incarico o una responsabilità nella Comunità, a desistere di fronte ac eventuali scontri o difficoltà. Non si ritiene necessario fare sacrifici per la comunità: tanto posso vivere o l’altro può vivere la propria fede anche al solo li­vello personale.
  • A volte sembra quasi una menomazione andare in Chiesa: quasi è un non sentirs uomo (adesso anche donna) quando s coltiva il rapporto specialmente comunita­rio con Dio. Sembra quasi che si tradisca l’umano non si abbia sufficiente coraggio o piacere nel restare semplicemente nell’umano.

CONCLUSIONI:

  1. Si rischia di sciupare o distruggere il pa­trimonio e la fede cristiana se, per igno­ranza e per non sperimentazione, si con­tinua a dissociare l’umano e il divino, la terra e il cielo, il personale e il comunita­rio.
  2. L’Umano e il divino, non solo sono fatti per integrarsi e si richiedono vicendevol­mente, ma sono fatti per essere insieme per vivere bene le vicende umane e i rap­porti umani.
  3. Continueremo ad assistere sia all’estra­neazione e all’emarginazione del laicato dalla vita ecclesiale e sia all’estraneazio­ne e all’emarginazione del divino dall’umano, se la concezione della vita cristiana e della Chiesa non saranno sot­toposti ad una revisione seria e corretta, in cui si recuperi il divino nell’umano.

2. La Riappropriazione, Da Parte Del Laicato (Battezzati)del Proprio Essere Cristiano (O Chiesa) Nelle Realtà umane e Terrestri

Ciò che non si riesce o non si vuole com­prendere nella nostra Comunità è questo: ge­stire le realtà umane: la vita, l’essere sposi, l’essere padre e madre, l’amore (l’amicizia), il lavoro, la scuola ecc. con o senza Dio nel pro­prio cuore o spirito umano non è la stessa co­sa.

LA VITA UMANA VISSUTA IN DIO E CON DIO

È un cammino dalla notte al giorno, dalla morte alla vita: è un morire nascendo: è il chicco di grano che nasce morendo; è il chic­co di sale che muore per nascere come ac­qua salata ecc.

La vita, che è bella, buona, mentre si estingue, viene pianta, viene sofferta, come la perdita degli amici. Però il pianto viene con­fortato da una nuova Vita (Dio) che ci assorbe e ci libera dalla morte.

Il cristiano tende a godersi, gustarsi il so­le, la montagna, il mare, l’acqua, l’amico, la sposa ecc.: tutto è buono. Però sente sempre la nostalgia del totalmente Altro; si sente sempre “pellegrino e ospite” sulla terra, tende sempre altrove: alla pienezza, alla sua vera terra.

Il cristiano ama la terra, si incarna nella terra, si nutre e nutre d’amore e vita; dona vita come espressione di sè, è impegnato a con­servare e fare crescere la vita, i sentimenti ecc., gusta, gode la terra e i frutti della terra.

Però non si totalizza nella terra, nell’uma­no: queste restano sempre realtà penultime, non ultime; realtà relative non assolute: il cri­stiano, anche se ne piange la perdita, non di­spera di esse: il suo sguardo, il suo cuore è anche altrove: in Dio e con Dio.

CHI VIVE SENZA DIO CERCA DI FERMARE LA VITA NEL PRESENTE O IN UN FUTURO TERRENO: LA VITA È CHIUSA E CIRCO­SCRITTA ALLA TERRA.

Di qui l’affanno disperato per riempire i granai; assicurazioni varie per la vita; la fami­glia, i figli, gli amici solo per conservare la propria vita con tutti gli isterismi e le dispera­zioni varie quando i conti non tornano; la ten­sione e l’apprensione continua per conserva­re la vita; le paure, anche piccole, che diven­tano terrore, angoscie; le precauzioni che di­ventano immobilismo; la sfiducia verso tutti che generalizza il nemico ecc.; la fuga da sè per non ascoltare le voci vere del proprio es­sere che sono di creaturalità, di povertà e re­latività; la fuga nel rumore, nel fare, nel lusso, nella droga ecc. “E chi più ne ha, più ne met­ta”.

L’ESSERE PADRE O MADRE CON DIO E IN DIO

“Ogni paternità e maternità viene da Dio”.

  • Ogni paternità e maternità vissuta nel Signore, in sintonia e sinergia con il Signore, non è circoscritta alle mura domestiche e al frutto della propria carne e umanità; si allarga e si estende in nuovi spazi e conte­sti sociali, specialmente nella comunità di fede, di lavoro, di amicizia e di bisogno ecc. in conformità alla paternità di Dio che si estende ad ogni creatura.
  • In altri termini: non si fanno confluire i pro­pri beni, il proprio tempo, sentimenti, amo­re, cioè la propria maternità e paternità so­lo ed esclusivamente nei figli.
  • Nei rapporti umani ed educativi con la pro­le non si tende alla riproduzione umana di sè nei figli, cioè nel volerli a propria imma­gine e somiglianza: li si vuole ad immagi­ne e somiglianza di Dio e, perciò, aperti all’amore universale, alla bontà, alla fede_ ecc.
  • Non si circoscrive la stima e l’apprezza­mento dei figli alle loro capacità operative, _ intellettive ecc., cioè alle loro capacità umane e produttive ma alle loro capacità di essere e comunicare con Dio, alle loro ca­pacità di essere e vivere da fratelli di tutte le creature, alle loro capacità di sapere es­sere in armonia e in pace con tutti; alle loro capacità di sapersi donare perché la vita è dono e si esprime nella sua realtà più vera quando si fa dono e gratuità.

L’ESSERE SPOSO/A VISSUTO/A NEL SI­GNORE

Essere sposo/a nel Signore significa:

  • non ridurre la propria sponsalità nel rap­porto di coppia umana, ma restare aperti al rapporto sponsale con il Signore che è eterno e ad altri ambiti sociali e comunitari. Questo comporta:
  • non chiudere la capacità dell’amore spon­sale all’interno della coppia;
  • non assolutizzare il rapporto di coppia, rendendosi incapace di vivere in mancanza di esso, come avviene in tante vedove e nubili;
  • non pretendere la pienezza della vita dal partner;
  • non perdere il gusto della vita, in assenza del partner; Vivere il rapporto sponsale nel Signore significa: guardare e trattare con più indul­genza i Propri difetti e quelli del partner; dare un volto immolativo e redentivo, come quello del Signore, al proprio amore verso il partner; smetterla di essere in un eterno vittimismo per ciò che il partner è o dovrebbe essere; educarsi ogni giorno ad un amore gratuito e senza ritorno come è quello del Signore.

L’AMORE E L’AMICIZIA VISSUTI NEL SIGNO­RE

Significano compartecipazione all’amore e all’amicizia del Signore che sono universali.
I lineamenti di questo amore emergono dalla parabola del Buon Samaritano: l’amore non è circoscritto al clan familiare o di fede c di cultura o di Nazione: il Samaritano era un estraneo, di fede diversa, di cultura e di Na­zione diversa.
Chi mette in moto la carità del Samaritano sono: la povertà, le lacerazioni, le meno­mazioni, le emarginazioni varie del malcapitato nell’agguato dei ladroni.

Se ci chiediamo: Perchè da noi il Volontariato è un tabù?
Perché la carità (l’amicizia) non va al di là dei figli, la famiglia, i parenti, gli amici del pro­
prio gruppo?
Perché l’amore non si estende a chi non 
ci dà il contraccambio?
Perché l’amore non si estende anche a 
genitori anziani che hanno bisogno di cure, assistenza continua?
Perché non esiste l’amore gratuito? Per­chè ogni prestazione o favore deve avere la sua ricompensa?
Perché si invita al Matrimonio per il re­galo? Perchè si sceglie per padrino o madrina 
la persona che può corrispondere economicamente?

La risposta è una sola: l’amore umano non è sintonizzato, potenziato dall’amore divi­no che è creativo, gratuito, amante della vita ecc.

Non ci sono altre risposte: l’amore uma­no non è sacramento, espressione dell’amore divino, come avveniva in Gesù uomo.

IL LAVORO VISSUTO NEL SIGNORE
Appare evidente che il lavoro, nella no­stra Comunità, viene vissuto come fonte di guadagno, di accumulo di ricchezza: è fun­zionale alla propria vita e alla propria casa. Anche il lavoro domestico della casalinga vie­ne ammesso e accettato come fonte di ric­chezza e di benessere per la casa, i figli, il marito.

Manca la dimensione del lavoro come compartecipazione all’opera creativa di Dio e, quindi, il lavoro anche come ricerca del bello, dell’opera d’arte ecc.; i mattoni non sempre vengono messi uno, sull’altro con un’estetica o finalità architettoniche belle, specialmente nell’abusivismo. Nelle case ab­bonda il lusso, difficilmente l’estetica, anche quando non si bada a risparmi.

Coltivare la pittura, la musica, l’arte in ge­nere sembra un tempo sprecato.

Manca la dimensione del lavoro come compartecipazione all’opera gratuita di Dio.

Oltre il lavoro retribuito sembra che non esista un lavoro gratuito.

Per il lavoro retribuito non ci sono limiti di produzione e di tempo; per il lavoro gratuito non c’è mai né tempo, né produzione.

Un fabbro, un falegname, un muratore, un professore (o studente), per un lavoro retri­buito lavora con l’orologio senza lancette, per un lavoro gratuito non arriva mai un orario o un momento previsto.

Ricordo che alcuni giovani lavoratori e studenti, per fare un po’ di volontariato con la Cooperativa che retribuiva, avevano il tempo; per farlo gratuitamente non c’era mai tempo.

Eppure Dio ci offre tutto gratuitamente: i mezzi di produzione (terra, cielo ecc.) e I frutti della terra…

Solo se il lavoro verrà vissuto nel Signo­re, potremo appropriarci e coltivare il bello, la gratuità nel lavoro.

Manca la dimensione del lavoro come strumento di fratellanza.

Mi spiego: nel lavoro manca l’attenzione alla situazione dell’altro; si guarda esclusiva­mente al costo del lavoro, ad una giustizia che tiene conto del proprio vantaggio, del proprio profitto, ingenerando sospetti di diso­nestà, mancanza di fiducia ecc.

Questo è dovuto al fatto che si lavora es­clusivamente per la terra, la vita terrena; non si tengono presenti i tempi ultimi, l’anticipa­zione di essi vivendo nel Signore e nella fra­tellanza.

LA SCUOLA VISSUTA NEL SIGNORE

La Scuola, da parte degli insegnanti, de­gli inservienti e degli utenti viene intesa come esplicitazione o acquisizione di una profes­sione, non come una missione educativa.

La missione educativa tiene presente la crescita umana e globale dell’essere umano, non tanto l’espletamento del proprio dovere secondo i canoni della società umana, dei programmi ecc.

I criteri, i punti di riferimento dell’insegna­mento diventano al massimo il profitto scola­stico e la condotta scolastica, non la forma­zione dei sentimenti, dei valori ecc.

Ciò che preoccupa l’insegnante non è il figlio di Dio che deve crescere anche intellet­tivamente e scolasticamente.

Non ho ancora visto un insegnamento che veicoli attraverso l’apprendimento e la sperimentazione, la socializzazione, la frater­nità, la bontà, la pace, la “pietas”.

Anche nelle Scuole cosiddette cattoliche tutto si riduce a “psicomotricità, sviluppo degli organi (occhio, udito ecc.) linguaggio, svi­luppo intellettivo, logico-matematico, sviluppo psichico con relativa didattica e pedagogia. Tutte cose buone.

Ma dove sta il “propium”, lo specifico cri­stiano con l’educazione personalizzata e non massificata, comunionale e non collettiva?

Dove sta la didattica, la pedagogia in fun­zione della pace, della conoscenza dell’ac­qua, del sole, del papà, la mamma, non nella loro funzionalità, ma nel loro essere “fratelli” e “sorelle”?

Potremmo dire di stare in un’era post-cri­stiana.

Nella nostra Scuola, in piccolo, qualcosa per cristianizzare la Scuola si è riuscito a fare almeno come tendenza: la gestione della Scuola comunitariamente valorizzando le sin­gole componenti e persone della Scuola; una gestione e applicazione dell’insegnamento comunitaria, non individualistica, un clima di rispetto e di pace nelle singole sezioni, una collaborazione e apertura sincera tra il corpo docente ecc…

Stenta a decollare l’ interiorizzazione del­la propria presenza nella Scuola come mis­sione ricevuta da Dio. espressione dell’amore di Dio attraverso l’opera delle maestre, inse­gnanti ecc. pur di svolgere questa missione, essere disposti a sacrificare tempo, energie, soldi ecc.

Non si è compreso che non si può essere espressioni dei valori cristiani, della comunità cristiana senza vivere pienamente la vita della Comunità cristiana in qualche gruppo ecclesiale o formando un gruppo ecclesiale.

Per es. : come si fa a far vivere ai bambini di Scuola Materna il mese di maggio, senza partecipare con la comunità almeno agli incontri di spiritualità mariana?

Come si può educare i bambini al senso della Comunità senza fare esperienza di Co­munità? Come si può insegnare ai bambini la fraternità senza sperimentare la fraternità nella Comunità?

Si potrebbe continuare all’infinito. Pur­i troppo a mali estremi, rimedi estremi, almeno nella nostra Scuola, se non si prende seria­mente coscienza che la Scuola va vissuta nel Signore; deve essere espressione dell’amore _ di Dio attraverso l’opera delle maestre, insegnanti ecc.

 Andria lì 13 Giugno 1990

Festa “San Antonio da Padova”

P. Vincenzo De Filippis

Di admin

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